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L'intervista a...

Massimo di Rienzo

Fondatore di @spazioetico e responsabile scientifico della formazione per ISPE Sanità.

D: Con la Scuola di Integrità quali obiettivi si propone ISPE?

R: Per prima cosa proviamo ad introdurre un approccio più multidisciplinare e meno formalistico alla prevenzione della corruzione. Si ha la sensazione che tutto l’articolato sistema di regole e strutture organizzative che sono nate a seguito della legge 190/2012 stiano sempre più incanalandosi verso un cul de sac, fatto di adempimenti, formalismi, tecnicismi, senza che se ne ravvisi un “senso” e senza una valutazione sugli effetti di queste misure. Regolamenti, procedure, forme di accesso che si sovrappongono; relazioni, documenti, che sembrano a molti delle sovrastrutture e che rischiano di asfissiare le amministrazioni che sono già alle prese con un problema di scarsità di ricambio e di risorse. C’è, in definitiva, un problema di monodisciplinarietà. Ad esempio, temi quali la prevenzione della corruzione e la trasparenza sono affrontati solo da un punto di vista giuridico e questo esclude molta della complessità che il tema propone. In altri Paesi chi discute di questi temi sono soprattutto economisti, sociologi, filosofi, a volte antropologi, scienziati delle organizzazioni. Le stesse modalità attraverso cui, ad esempio, vengono costruiti i Piani Triennali di Prevenzione della Corruzione, spesso nulla hanno a che fare con quello che ti aspetteresti di trovare in un documento di programmazione.

D: Sempre più amministrazioni, in particolare quelle della sanità pubblica, decidono di dar vita a sessioni formative che utilizzano casi e dilemmi etici per coinvolgere il personale sui temi della prevenzione della corruzione, dell’etica e dell’integrità. Per quale motivo, a suo avviso, scelgono questo approccio?

R: Secondo me, c’è una grande voglia di coinvolgere e di appassionare all’integrità. L’utilizzo dei casi e, in particolare, dei dilemmi etici è accattivante. Attraverso una storia ci si può identificare in un protagonista che non è il corrotto né il corruttore, ma uno dei tanti dipendenti e/o dirigenti che si trovano di fronte a scelte difficili, che chiamano in causa la propria autonoma capacità di assumere decisioni compatibili con l’etica pubblica. Tra tutti i dilemmi etici, mi piace fare l’esempio del dilemma di chi osserva una condotta potenzialmente illecita e deve decidere se segnalare o no. E’davvero una decisione difficile da prendere anche in presenza di una normativa ancora acerba e piuttosto inconsistente sulla protezione dei cosiddetti “whistleblower”.

D: A parte la corruzione ed i suoi effetti, esistono altri fenomeni che, a suo avviso, stanno intaccando la tenuta etica dei dipendenti pubblici? 

R: La perdita di autonomia decisionale, ad esempio, è un fenomeno dilagante e che a vari livelli coinvolge tutti i settori e gli ambiti professionali pubblici, compresa la sanità. La capacità di prendere decisioni in piena autonomia, in particolare, è stato in questi anni un problema reale per il nostro Paese, sia a livello politico che amministrativo.

D: Da cosa dipende la perdita di autonomia decisionale?

R: Oltre ai modelli educativi, alla scuola e all’università dove nessuno ha mai insegnato, ad esempio, “il processo decisionale etico”, esiste il devastante fenomeno dell’ipertrofismo legislativo, cioè, della proliferazione di leggi, norme, regolamenti, codici, che sta determinando un fenomeno di “corsa all’adeguamento” e che produce nuove forme di nevrosi quali, ad esempio, l’ipengiofobìa, cioè la paura di assumersi responsabilità o la nomodipendenza, cioè la dipendenza dalle leggi. Mai come in questa fase, accanto alla predisposizione di norme, regole, procedure, policy, regolamenti, ecc., occorre rafforzare il cosiddetto “spazio etico” del dipendente pubblico e ottenere una piena comprensione e condivisione delle regole e dei valori che costituiscono le fondamenta logiche e razionali dei comportamenti.

D: Quali sono, a suo avviso, i principali gap ancora da colmare per l’Italia?

R: Il 26 gennaio 2017 il Consiglio OCSE sull’Integrità Pubblica ha pubblicato le nuove Raccomandazioni su proposta del Comitato per la Public Governance.

Da un punto di vista della coerenza del sistema italiano a questo “sistema” notiamo come alcuni elementi che rappresentano il cuore delle raccomandazioni siano assenti dalla strategia nazionale, cioè dal Piano Nazionale Anticorruzione pubblicato nel 2013 e poi aggiornato nel 2015 e 2016.

In particolare, il punto 8: “fornire informazioni sufficienti, formazione, orientamento e consulenza tempestiva per i dipendenti pubblici al fine di applicare gli standard di integrità pubblica al lavoro, in particolare attraverso: “… lo sviluppo di competenze essenziali per affrontare i dilemmi etici e per rendere gli standard dell’integrità pubblica applicabili e significativi nei diversi contesti.

Ed anche il punto 9: “Sostenere una cultura organizzativa aperta all’interno del settore pubblico che sappia rispondere alle questioni dell’integrità, in particolare attraverso l’incoraggiamento di una cultura aperta dove i dilemmi etici, le questioni dell’integrità pubblica e gli errori possano essere discussi apertamente e, dove è appropriato, insieme ai rappresentanti dei lavoratori e dove la leadership sia pronta e motivata a fornire orientamenti tempestivi per risolvere problematiche rilevanti.

D: L’integrità, dunque, passa per la promozione di una cultura aperta, che si costruisce attraverso la formazione, l’informazione e il coinvolgimento dei dipendenti nella elaborazione delle regole di comportamento?

R: Esatto! A molti sembra naturale ritenere che la chiarezza delle regole di comportamento sia un fatto di per sé acquisito dal personale che, attraverso la semplice lettura delle disposizioni contenute nel Codice di Condotta, può orientare il proprio comportamento e prendere le decisioni giuste al momento giusto.

Non è proprio così che stanno le cose, nel senso che per fare chiarezza sulle regole non basta codificarle. Proprio come per un’organizzazione è cruciale il meccanismo della “riqualificazione” costante, così è cruciale il lavoro di costante rafforzamento dello “spazio etico” del personale.

A questo proposito, le iniziative formative debbono coinvolgere tutto il personale ed i collaboratori a vario titolo di un’organizzazione. Devono essere previsti appositi focus group nell’ambito dei quali vengono esaminate ed affrontate problematiche di etica calate nel contesto organizzativo al fine di far emergere il comportamento più compatibile con l’etica pubblica.

Questo tipo di formazione può essere utilizzata per la “determinazione” (a posteriori) delle regole di comportamento. Se concepita come laboratorio aperto, con metodologie socio-costruttiviste (cioè dove la conoscenza si forma attraverso il contributo dei partecipanti piuttosto che dal docente), è l’attività giusta per ragionare insieme almeno agli attori interni su quali regole servano veramente per quella specifica organizzazione a valle di un processo di codificazione già avvenuto, ma ancora aperto.

Per questo i codici di comportamento non dovrebbero essere “chiusi” (non lo dovrebbero essere mai in nessun caso). La virtù di un’organizzazione risiede, infatti, nella sua capacità di mettere in discussione le regole e, per il personale, di poter affrontare con il dovuto supporto la gestione dei dilemmi etici che quotidianamente si trova a fronteggiare.

D: La creazione di una cultura dell’integrità è compatibile, in qualche modo, con l’attuale architettura della prevenzione della corruzione?

R: Certamente. Dei tre obiettivi strategici posti dal Piano Nazionale Anticorruzione, il terzo, “creare un contesto sfavorevole alla corruzione”, è proprio il nostro obiettivo ed è, di certo, quello più sfidante.

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